lunedì 6 giugno 2022

Se fossi pane….

 

Se fossi pane….

Il rapporto di Leonardo Sciascia e il cibo principe della dieta mediterranea

 

“ Il pane per i siciliani è l’essenza della civiltà e dell’economia agricola e il simbolo dell’interazione tra la società e la storia: testimonianza continua dei contrasti e delle sofferenze di un popolo che da questa parte del mediterraneo ha saputo mantenere un rapporto di grande intimità con la terra”.

 

 

di Lillo Alaimo Di Loro

 

 «Il rapporto con il pane era normale, non ne andava particolarmente ghiotto e non ricordo si lamentasse della sua qualità. Gli piaceva il pane casereccio, con una crosta robusta. Amava le fuazze e le unchiatedde, condite con olio, pecorino e acciuga. La unchiatedda non sempre riesce

alla perfezione».

Leonardo Sciascia non si lamentava della qualità del pane, con cui aveva un rapporto semplice e naturale. Questa è forse l’espressione più rasserenante di tutta questa nostra riflessione sul cibo. Il pane siciliano è un pane molto dolce, saporito, profumato. È veramente difficile lamentarsene, come è altrettanto difficile riuscire a produrre un pane non all’altezza della sua fama. La qualità delle farine siciliane è stata da sempre eccezionale, forte delle proprietà eccellenti della materia prima. Il grano duro delle varietà antiche Russello, Perciasacchi, Tumminia, o il tenero Maiorca, tra i più noti. Ma la lista dei grani antichi siciliani è lunghissima, figli della “selezione massale” operata direttamente dai contadini, in una regione che è in effetti un piccolo continente per variabilità di clima e di terreno. Terra vocata al grano per eccellenza, tanto che lo stesso Diodoro Siculo, storico siceliota nato ad Agira in provincia di Enna, nel 90 a.C. autore della prima, monumentale enciclopedia della storia, la Bibliotheca historica, sosteneva che il grano in Sicilia fosse esistito da sempre, in contrasto con quanti, già allora, ritenevano che fosse stato

invece introdotto dai greci, a cui i semi erano stati donati direttamente dalla dea Demetra per ricambiare l’ospitalità ricevuta sulla terra.

Il pane per i siciliani è l’essenza della civiltà e dell’economia agricola e il simbolo dell’interazione tra la società e la storia: testimonianza continua dei contrasti e delle sofferenze di un popolo che da questa parte del mediterraneo ha saputo mantenere un rapporto di grande intimità con la terra.

Quando si parla di cibo, nel senso di sostantivo maschile che indica tutto ciò che può essere mangiato per nutrire l’organismo, ci si riferisce spesso al pane. Il pane diventa il simbolo dell’essenziale, imprescindibile elemento della vita stessa. Almeno nella vasta area mediterranea di cui la Sicilia è il centro, il pane di grano duro, e non la polenta di mais o il riso oppure le patate e i crauti, assume un preciso valore di connotazione territoriale, là dove la demarcazione geografica è culturale.

Leonardo Sciascia, soprattutto nella prima fase della sua produzione letteraria, fa larghissimo uso della parola pane. Lo vediamo ne Le parrocchie di Regalpetra dove nelle pagine introduttive ci riferisce di una irritata conversazione sul tema dell’orgoglio, avuta con un suo parente.

Siamo nella “Regalpetra” degli anni cinquanta. Questo suo parente si lamentava del fatto che “i timidi miglioramenti” della condizione sociale degli umili nel secondo dopoguerra istigavano una sorta di “orgoglio di uguaglianza”, che poneva, tra l’altro, i primi deboli limiti allo sfruttamento e alla disponibilità di manodopera a buon prezzo. O meglio a prezzo da fame.

«Questo c’è di nuovo: l’orgoglio; e l’orgoglio maschera la miseria, le ragazze figlie di braccianti e di salinari passeggiano la domenica vestite da non sfigurare accanto alle figlie dei galantuomini, e i galantuomini commentano - guardate come vestono, il pane di bocca si levano per vestire così -; e io penso - bene, questo è forse un principio, comunque si cominci l’importante è cominciare».

E la parola pane, come cibo, necessario nutrimento per la vita, figura ben 35 volte ne Le parrocchie di Regalpetra, in altrettanti contesti che descrivono una condizione di disagio, povertà, sofferenza, sempre a indicare l’assenza, il bisogno di averne abbastanza per potere svolgere una condizione di vita normale, dignitosa. Concetto che anche un altro grande personaggio del secolo scorso ha sviluppato con poetica enfasi, Ignazio Buttitta. Nel descrivere la ragione per cui tanti siciliani dopo il secondo dopoguerra, stremati dalla povertà, intrapresero la strada dell’emigrazione, in quel contesto vissuta come condizione di estrema umiliazione e sconfitta, in una delle sue poesie, L’emigranti ripartono, sintetizza splendidamente nell’assenza del pane la ragione dell’andare “in terra straniera”:

«Oh terra mia d’aranci/ d’aranci e di canzuni/ u latti mi lu dasti/ ma pani un mi nni duni».

E ancora il pane che in più momenti si intreccia con la storia della Sicilia sapendo essere espressione di stoica sopportazione come di irruente violenza, quando il retroterra di disagio sociale culmina nella fame e anima le “rivolte del pane”, troppo spesso strumentalizzate negli esiti da registi occulti che finiscono con trarne nuovi privilegi e nuovo potere. Basta ricordare la rivolta del pane del 1647a Palermo, per il “caro pane” conseguente alla municipalizzazione; la rivolta del 1673 a Messina, per analoghi motivi; La rivolta del Sette e mezzo, nel 1866 a Palermo, ancora una volta a causa dell’aumento del costo del pane e dell’introduzione del “macinato”, tassa sulla farina imposta dal governo centrale (per coprire i costi della guerra contro gli austriaci). Infine, il 19 ottobre del 1944, a Palermo davanti al palazzo Comitini, allora sede della prefettura, una protesta pacifica di gente che chiedeva pane,lavoro e libertà, diede luogo di fatto alla prima strage di stato della storia nazionale, con 24 vittime e 158 feriti, tra i popolani affamati.

Ma Leonardo Sciascia con il pane aveva un rapporto sereno. Ed anche il cibo nell’ultima fase della produzione letteraria figura sempre più come elemento del buon vivere e non come strumento di sopravvivenza. Segno che qualcosa stava cambiando. Lui ne mangiava con gusto, quanto basta per accompagnare companatico e cibi che il suo raffinato palato gradiva e che la sua lucida cultura europea consentiva di scegliere ed apprezzare.

 


Da  La “ragione” del cibo - Leonardo Sciascia a tavola  -   di Lillo Alaimo Di loro

 

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